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Panchine cicale navi e altre cose che aiutano a stare meglio

Sono di ritorno da un viaggio nelle isole greche, un viaggio lento, zaino in spalla, senza meta ma con direzione.

Credo che il viaggio e la terapia abbiano molto in comune. Entrambi, come luoghi dell’incontro, sono zone di passaggio, eterotopie nella loro funzione di spazi altri in cui sperimentarsi nella costruzione di vie in collegamento con il mondo in cui si vive abitualmente.

I bambini conoscono benissimo questi contro-spazi, queste utopie localizzate. L’angolo remoto del giardino, la soffitta o, meglio ancora, la tenda degli indiani montata al centro della soffitta, e infine – il giovedì pomeriggio – il grande letto dei genitori. È in quel letto che si scopre l’oceano, perché tra le sue coperte si può nuotare; ma quel letto è anche il cielo, perché sulle sue molle ci si può saltare; è il bosco perché ci si può nascondere; è la notte, perché fra le sue lenzuola si diventa fantasmi; ed è il piacere, perché al ritorno dei genitori si verrà puniti.

MICHEL FOUCAULT, Utopie Eterotopie.

Pensando ad alcune delle esperienze vissute, tra quelle più significative per intensità o per frequenza, ho tratto qualche immagine e indicazione che mi paiono utili a orientare la strada verso la salute.

Non fissarti su una meta, ma prendi una direzione
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La mano è l’organo della carezza

Humberto Maturana (1928 – 2021)
Questo mio scritto in ricordo di Humberto Maturana è pubblicato nel n. 10 di Connessioni - Nuova serie, la rivista del Centro Milanese di Terapia della Famiglia.

Aveva una faccia seria e simpatica insieme. Questo è quello che ho pensato quando ho saputo della morte di Maturana, conoscendo poco delle sue idee.

Ora che sto cercando di avvicinarmi al suo pensiero (che fatica e che bellezza!), mi sembra che guardare quella faccia, seria e simpatica insieme, sia stata la mia prima esperienza del suo insegnamento, di quel modo di conoscere e dare valore al mondo con il corpo e con la tenerezza dello sguardo.

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La formazione online è come il Kintsugi

Torino Embraces di Pierpaolo Rovero
Questo scritto è pubblicato nel numero 9 di Connessioni - nuova serie - La rivista telematica del Centro Milanese di Terapia della Famiglia.
Torino Embraces fa parte della collezione Immagine All the People di Pierpaolo Rovero.

All’inizio del 2020, ero impegnata ad organizzare il calendario dei laboratori di Land Art e dintorni, che dall’anno precedente erano diventati una parte consistente del mio lavoro. Quelle che proponevo erano esperienze in cui esplorare la possibilità di fare con quello che c’è e di inventare un modo per dare forma a quello che potrebbe esserci, sperimentando le potenzialità trasformative del quotidiano nei luoghi in cui ci troviamo a stare, dagli ambienti naturali della Land Art, alla scrittura autobiografica intorno ai vestiti, al riuso degli oggetti dismessi. Se tutto questo, con l’avvicinarsi della pandemia, è stato immediatamente messo tra parentesi, in attesa di capire meglio cosa stesse succedendo, il resto della mia attività, il lavoro in studio e quello di formazione e supervisione con équipe dei servizi sociosanitari, è stato improvvisamente caratterizzato da giorni di incontri quasi surreali, con mascherine, guanti, gel, distanziamenti, fino a quando non è stato imposto lo stop generale, che ricordo di aver preso con sollievo. Avevo bisogno di fermarmi un momento, mi sentivo a disagio. Ripensandoci ora, forse mi sentivo come se, ingrassata, continuassi a vestirmi a tutti i costi con gli stessi vestiti che mettevo prima. Dovevamo fare i conti con le nuove misure del contatto, investito di colpo dal contagio, etimologicamente simili, nella dilagante confusione comunicativa, tra distanziamento fisico e distanziamento sociale. Lo volevo a tutti i costi, quel contatto?

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Oltre la resilienza

L’anno che sta volgendo al termine è stato piuttosto complicato. In senso letterale, pieno di pieghe. La pandemia in corso, esplosa con forza all’inizio di questo 2020, si è fatta immediatamente terreno comune di avversità, impegnandoci spesso a tenerci in piedi e a procedere a tentoni tra le piccole e grandi avversità della vita quotidiana che, in queste condizioni, rischiano di farsi più frequenti, più faticose o più gravi.

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Non c’è soluzione?

Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1913

Non c’è soluzione perché non c’è alcun problema, diceva Marcel Duchamp. Quando c’è un problema, infatti, c’è anche una soluzione. Anzi tante. Perché i problemi sono imprevisti, complicazioni, pieghe che la vita può assumere, e le soluzioni hanno a che fare con il senso che diamo a quei problemi. Ognuno il proprio, diverso a seconda dei momenti e dei contesti.

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Di cosa parliamo quando parliamo di umanità

Roberto Latini ne I giganti della montagna di Fortebraccio Teatro

Che cos’è l’umanità? Come caratteristica che si attribuisce alle persone, intendo. La sto sentendo e usando molto, anche nel suo contrario, ma mi rendo conto di fare fatica a definirla. Eppure, non ho alcuna esitazione a riconoscerla quando la vedo.

Ezio Bosso, ad esempio, aveva una grande umanità, ed è anche quella che rende così commosso e vivo il suo ricordo. Aveva, cioè, la capacità di stare tra gli accidenti della vita, con un accidente della vita, e la generosità di mostrarsi nelle sue grandezze e nelle sue fragilità. Un po’ come se ci dicesse:

guardate che ce la possiamo fare, guardate che la vita è bella anche se non è facile, guardate che non va tutto liscio, eppure possiamo sempre trovare un modo per essere felici, per dare frutto. Possiamo sempre trovare un modo per trasformarci insieme alla vita.
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La visione di Giano

A una settimana dall’allentamento delle misure restrittive, una delle cose che mi ha colpito di più degli incontri con alcune delle persone a me care è stato il sollievo di constatare che non sono cambiate. Non so dire cosa mi aspettassi. Forse, semplicemente, che l’impossibilità di riprendere i gesti consueti ci potesse confondere o tenere bloccati.

In realtà, non penso che le persone che ho incontrato non siano cambiate, penso semmai che tutti siamo cambiati e che riprendere contatto significhi soprattutto riconoscersi, conoscersi di nuovo. Ricordare, cioè, l’intimità con cui abitavamo quella relazione e, al contempo, mettersi in ascolto per inventare modi per ricrearla. Un po’ come quando conosciamo qualcuno per la prima volta: proviamo a prendere le misure, esploriamo su che registro muoverci, azzardiamo promesse di vicinanza o prudenti distanze. E forse ora, paradossalmente, rischia di apparirci più rassicurante incontrare sconosciuti con cui scambiare qualche chiacchiera senza grandi investimenti e spesso con una gentilezza particolarmente complice.

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E vedere di nascosto l’effetto che fa

Fotografia di Robert Doisneau

In questi giorni mi ritrovo sempre più spesso a canticchiare “e vedere di nascosto l’effetto che fa”, da Vengo anch’io no tu no di Enzo Jannacci. Oggi, poi, continua a frullarmi per la testa.

Domani qualcosa cambierà. Tutti i giorni qualcosa cambia, certo, e da quando è esplosa questa pandemia mi sembra che i pensieri e i comportamenti scadano come le uova, eppure la giornata di domani esibisce il cambiamento come il titolo sulla targhetta di un’opera esposta in un museo. E così sembra assumere la stessa forza spiazzante di un ready-made di Duchamp, con annessi pareri contrastanti sullo status di opera d’arte. Penso ad esempio all’opera Fontana, l’orinatoio che spostato di contesto e di uso porta con sé un nuovo punto di vista e diventa opera d’arte, e mi viene da usarlo per immaginare lo spiazzamento che apre la targhetta di “Fase 2”.

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Metafore per prendersi cura

Il giardino dei ciliegi, regia Alessandro Serra. Foto Alessandro Serra

In questi giorni mi sono sentita a disagio a vedere alcuni paragoni tra il 25 aprile del 1945 e i nostri tempi.

La metafora della guerra, così come quella della reclusione, finora non mi dava particolare fastidio, semplicemente la trovavo poco utile. Se infatti le metafore sono dei processi creativi attraverso cui la mente costruisce significati intorno al mondo e al proprio modo di percepirlo, allora

non penso che si possa dire che una metafora non va bene, ma semmai trovo che abbia più senso chiedersi in cosa ci aiuta e in cosa ci blocca, non permettendoci di vedere altro o di agire.
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Ditemi come fate

Cirque Rouages a Lunathica 2019

Una delle cose che questa esperienza ci sbatte in faccia è che il meccanismo si può inceppare, che le nostre routine possono essere messe in discussione.

Le storie in cui mi imbatto nel mio lavoro parlano spesso di questo, del disorientamento di fronte a qualcosa che non possiamo controllare e prevedere: una malattia, esplosioni di rabbia, un lutto, la fine di un amore, per fare solo qualche esempio. E la sofferenza che accompagna quelle storie è percepita come un nemico invisibile, come qualcosa che deve essere combattuto e sconfitto. Proprio come questo virus.

Oggi, più che mai, ci stiamo rendendo conto che questo riguarda tutti, è la nostra condizione esistenziale: non possiamo prevedere e controllare niente.

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Elogio dell’indulgenza

Opera di Edward Hopper

In questi giorni penso spesso ai quadri di Hopper, a quella dimensione sospesa dell’attesa, a quelle inquadrature così capaci di raccontare storie private e spazi che si estendono al di fuori delle cornici, con immagini che paiono sempre mostrare una parte di un tutto immenso.

Siamo in una situazione paradossale, uniti nel separarci, o separati nel fronteggiare insieme questa emergenza.

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