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La visione di Giano

A una settimana dall’allentamento delle misure restrittive, una delle cose che mi ha colpito di più degli incontri con alcune delle persone a me care è stato il sollievo di constatare che non sono cambiate. Non so dire cosa mi aspettassi. Forse, semplicemente, che l’impossibilità di riprendere i gesti consueti ci potesse confondere o tenere bloccati.

In realtà, non penso che le persone che ho incontrato non siano cambiate, penso semmai che tutti siamo cambiati e che riprendere contatto significhi soprattutto riconoscersi, conoscersi di nuovo. Ricordare, cioè, l’intimità con cui abitavamo quella relazione e, al contempo, mettersi in ascolto per inventare modi per ricrearla. Un po’ come quando conosciamo qualcuno per la prima volta: proviamo a prendere le misure, esploriamo su che registro muoverci, azzardiamo promesse di vicinanza o prudenti distanze. E forse ora, paradossalmente, rischia di apparirci più rassicurante incontrare sconosciuti con cui scambiare qualche chiacchiera senza grandi investimenti e spesso con una gentilezza particolarmente complice.

Quello che ci manca è tanto, eppure proprio quella nostalgia può essere motore per andare verso l’altro, può essere prezioso repertorio a cui attingere per creare nuovi modi di stare insieme.

È necessaria la voglia di abbracci e di tornare alla vita di prima, ma è altrettanto necessaria la fiducia nella nostra autopoiesi, la consapevolezza che, ognuno coi propri tempi, ristabiliremo il nostro equilibrio (che non significa tornare come prima).

Solo mantenendo vive entrambe le istanze, infatti, è possibile ricostruire un ordine delle cose attraverso gesti e posture che assumono la funzione dei rituali che accompagnano i passaggi di vita e consentono di sancire legami e tessere narrazioni tra sistemi di significato.

Questo vale per qualsiasi accidente della vita. La voglia di tornare come prima, da sola, espone alla frustrazione, così come la consapevolezza che prima o poi si ristabilirà un nuovo equilibrio rischia di lasciare in posizione passiva.

Insieme, permettono di assumere la visione di Giano, dio dei passaggi, fatta di memoria e di desiderio, capace di aprire altri sbocchi che connettono quello che non è più e quello che sarà, e di vedere il presente come passaggio e non solo come perdita.

Mi pare, dunque, che in questa nuova fase ci troviamo a fare qualcosa di molto più complicato che combattere la battaglia di cui tanto si parla, in una narrazione lineare che vuole sconfiggere tutto ciò che si oppone al nostro benessere.

Quello che ci impegna ora è la ricerca di un modo per convivere, non solo con il virus, ma anche con pensieri e sentimenti contrastanti, con le nostre moltitudini, tra di noi:

convivere con la voglia di uscire e con la paura, con chi non mette la mascherina e con chi la reclama sempre e ovunque, con il bisogno di ritornare a buttarsi nella mischia per lavorare e con la preoccupazione di farlo, con il timore di infettare e con quello di ammalarsi, con la cura di proteggere gli altri e con il bisogno di sentirsi rassicurati.

La convivenza è difficile, perché implica l’incontro con l’altro, con le differenze, accogliendo anche gli aspetti perturbanti dell’esistenza. Ed è condizione fragile che richiede cura, e perciò dobbiamo aiutarci ad allargare lo sguardo e a esercitare pazienza e curiosità. La possibilità di vedere il passato e il futuro, d’altra parte, è il dono ricevuto da Giano come ricompensa proprio per un atto di accoglienza.

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