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La visione di Giano

A una settimana dall’allentamento delle misure restrittive, una delle cose che mi ha colpito di più degli incontri con alcune delle persone a me care è stato il sollievo di constatare che non sono cambiate. Non so dire cosa mi aspettassi. Forse, semplicemente, che l’impossibilità di riprendere i gesti consueti ci potesse confondere o tenere bloccati.

In realtà, non penso che le persone che ho incontrato non siano cambiate, penso semmai che tutti siamo cambiati e che riprendere contatto significhi soprattutto riconoscersi, conoscersi di nuovo. Ricordare, cioè, l’intimità con cui abitavamo quella relazione e, al contempo, mettersi in ascolto per inventare modi per ricrearla. Un po’ come quando conosciamo qualcuno per la prima volta: proviamo a prendere le misure, esploriamo su che registro muoverci, azzardiamo promesse di vicinanza o prudenti distanze. E forse ora, paradossalmente, rischia di apparirci più rassicurante incontrare sconosciuti con cui scambiare qualche chiacchiera senza grandi investimenti e spesso con una gentilezza particolarmente complice.

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E vedere di nascosto l’effetto che fa

Fotografia di Robert Doisneau

In questi giorni mi ritrovo sempre più spesso a canticchiare “e vedere di nascosto l’effetto che fa”, da Vengo anch’io no tu no di Enzo Jannacci. Oggi, poi, continua a frullarmi per la testa.

Domani qualcosa cambierà. Tutti i giorni qualcosa cambia, certo, e da quando è esplosa questa pandemia mi sembra che i pensieri e i comportamenti scadano come le uova, eppure la giornata di domani esibisce il cambiamento come il titolo sulla targhetta di un’opera esposta in un museo. E così sembra assumere la stessa forza spiazzante di un ready-made di Duchamp, con annessi pareri contrastanti sullo status di opera d’arte. Penso ad esempio all’opera Fontana, l’orinatoio che spostato di contesto e di uso porta con sé un nuovo punto di vista e diventa opera d’arte, e mi viene da usarlo per immaginare lo spiazzamento che apre la targhetta di “Fase 2”.

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Metafore per prendersi cura

Il giardino dei ciliegi, regia Alessandro Serra. Foto Alessandro Serra

In questi giorni mi sono sentita a disagio a vedere alcuni paragoni tra il 25 aprile del 1945 e i nostri tempi.

La metafora della guerra, così come quella della reclusione, finora non mi dava particolare fastidio, semplicemente la trovavo poco utile. Se infatti le metafore sono dei processi creativi attraverso cui la mente costruisce significati intorno al mondo e al proprio modo di percepirlo, allora

non penso che si possa dire che una metafora non va bene, ma semmai trovo che abbia più senso chiedersi in cosa ci aiuta e in cosa ci blocca, non permettendoci di vedere altro o di agire.
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