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Metafore per prendersi cura

Il giardino dei ciliegi, regia Alessandro Serra. Foto Alessandro Serra

In questi giorni mi sono sentita a disagio a vedere alcuni paragoni tra il 25 aprile del 1945 e i nostri tempi.

La metafora della guerra, così come quella della reclusione, finora non mi dava particolare fastidio, semplicemente la trovavo poco utile. Se infatti le metafore sono dei processi creativi attraverso cui la mente costruisce significati intorno al mondo e al proprio modo di percepirlo, allora

non penso che si possa dire che una metafora non va bene, ma semmai trovo che abbia più senso chiedersi in cosa ci aiuta e in cosa ci blocca, non permettendoci di vedere altro o di agire.

Trovo comprensibile pensare alla guerra, perché è l’immagine che si rende immediatamente disponibile nella nostra esperienza comune per leggere scenari di morte e sentimenti di paura. Ma penso che sia inefficace per tante ragioni, e chi la guerra l’ha vissuta lo sa spiegare molto meglio di come potrei fare io. Quello che a me non piace è soprattutto il fatto che questa immagine veicola il messaggio che il virus sia un nemico, che mi pare sotteso dall’hybris di ritenere che il mondo sia nostro, spazzando via la potente esperienza di interconnessione e di complessità che stiamo facendo. Il virus, semmai, ci riposiziona nel processo di coevoluzione di uomo e natura.

Anche la metafora della reclusione e degli arresti domiciliari non mi piace. La comprendo, so che in certe situazioni, ahimé, coglie degli aspetti dolorosi, ma mi rimanda a un’idea di condanna e di attesa di una liberazione che arrivi da qualcun altro, e dunque a una condizione di passività.

Se queste sono le metafore più diffuse, non sono però le uniche.

La nostra mente estatica è capace di dare forma a molteplici possibilità, metafore che colgono aspetti e ne tralasciano altri, che tracciano mappature tra cui scegliere quelle con cui prendersi cura di sé e nutrire i propri processi di resilienza o antifragilità.

Secondo Guido Dotti della comunità monastica di Bose, non siamo in guerra, ma siamo in cura. In quest’ottica, il personale sanitario non è una squadra di supereroi e coloro che ci governano non sono né infallibili né incapaci, ma sono tutte figure che, pur con tutti i limiti, si stanno impegnando a diversi livelli nella cura. Noi non possiamo che aver fiducia, non abbiamo scelta. Quello che possiamo scegliere è di prenderci cura a nostra volta, se non come atto di responsabilità, almeno come gesto egoistico, perché la salute di ognuno di noi dipende da quella di qualcun altro che nemmeno conosciamo, nello stesso rapporto circolare che lega l’uomo all’ambiente. E possiamo accettare di avere bisogno di cure anche noi, ogni tanto, e andarle a cercare, perché stiamo vivendo un’esperienza dolorosa e faticosa.

La metafora della cura mi porta alla Montagna incantata di Thomas Mann, a quel sanatorio in cui il protagonista ha accesso alla crescita attraverso il contatto con la malattia e la morte, intesi come momenti di passaggio verso una maggiore consapevolezza, verso il cambiamento. E così, si arriva a un’altra metafora, quella del romanzo di formazione, di cui la Montagna incantata, nelle intenzioni di Mann, ne è anche una parodia. Si parla spesso delle lezioni del virus, ma il virus non ci insegna niente, proprio come non è contro di noi. Siamo noi, semmai, che possiamo farci delle domande: cosa ho imparato? Cosa ho scoperto di me? Quali sono le cose che mi hanno fatto sentire meglio? Quali sono quelle che mi hanno fatto sentire più a disagio? E così via.

Molto lontana dalla dimensione istruttiva è la proposta di Eugenio Barba, fondatore dell’Odin Teatret, che si rivolge a chi ha nostalgia, sì, ma di futuro: Se l’arte è un’esperienza che spiazza l’individuo facendolo riflettere sulla sua condizione, allora i tempi che viviamo sono “artistici”. È forse quella che mi piace di più e che trovo più utile, perché accoglie lo spiazzamento e lo utilizza come condizione per sperimentare altre possibilità per sé, per entrare in contatto con le proprie moltitudini (ascoltate I contain multitudes, scritta in questa quarantena da Bob Dylan). Proprio come dice l’assioma di Cyrulnik (colui che ha diffuso l’ormai abusato termine resilienza), i traumi non sono reversibili, ma sono riparabili, e perciò ostinarsi a ritornare al passato ci rende impotenti, mentre la creatività ci consente di creare un nuovo ordine.

Un’altra espressione che sento spesso è siamo nella stessa barca. Temo di no, le diseguaglianze ci sono e ci saranno. Preferisco pensare che siamo nella stessa tempesta, sospesi tra il porto da cui siamo partiti e quello verso cui eravamo diretti, tra la possibilità di approdare in un nuovo mondo e quella di tornare a vedere il vecchio con occhi nuovi, tra la paura di naufragare e l’orgoglio di fare tutto il possibile per resistere.

A questa sospensione penso anche con toni più quieti, ad esempio immaginando le riprese di un film, quell’atmosfera rarefatta in cui tutto ruota intorno alla scena da girare, e intanto, ai lati, la vita prosegue, con tutte le sue imprecisioni, e reclama il suo spazio. Ma l’interesse è tutto per la scena da costruire, che soddisfa molto di più perché è stata pensata per essere con le battute e i tempi giusti.

A volte mi sento espatriata, a pensare a tutte le persone care che mi mancano, a scriver lettere, a macinare pensiero, esclusa da tutte le decisioni che riguardano le nostre vite. Altre volte, assaporo aria pulita e lentezza, e mi pare di essere in un’eterotopia, in uno di quei controspazi di cui parla Michel Foucault che hanno la funzione di compensare o purificare gli spazi che sostituiscono. E penso, con non poca vanagloria, che potrò contribuire alla costituzione di un mondo nuovo.

Anche l’allenamento sportivo è un serbatoio di significati. Io penso soprattutto al pilates, perché conosco quello, e mi piace come invito a prestare attenzione alla postura e al respiro, e ad ascoltare il proprio corpo. E come per ogni altro allenamento, ci vuole disciplina e ci vuole tempo per vedere dei benefici che compensino i sacrifici.

Addirittura la dieta mi sembra una metafora utile per leggere questo momento, non tanto per la dimensione di sacrificio, quanto per il cambio di abitudini che impone. All’inizio è dura, ma poi ci si rende conto di stare bene, e si comincia a pensare a cosa reintrodurre, a cosa non si può proprio rinunciare, a cosa si può eliminare, trovando la misura giusta per sé.

Ancora, mi capita di sentirmi un po’ come davanti all’armadio, quando non so cosa mettermi e tiro fuori un sacco di cose, e penso se farà freddo, se bisognerà essere eleganti, se dovrò camminare tanto e allora meglio non mettere i tacchi, se ci sarà vento e mi piacerà portare una fascia tra i capelli. So che lì dentro qualcosa troverò, anche quando mi sembra che niente mi stia bene, e ho fiducia di potermi attrezzare per procurarmi ciò che mi sembra mancare per sentirmi comoda nei miei panni.

Mi fermo qui. Ognuno potrà continuare con altre metafore utili a prendersi cura delle proprie emozioni, lasciarle emergere attingendo a scenari vissuti per allenare la capacità di costruire nuovi significati e immaginare il futuro.

Se poi, ogni tanto, ci viene voglia di trovare metafore ingiuriose e sporche, di dirgliene quattro a questo mostriciattolo, facciamolo, sfoghiamoci, se ci fa bene. E poi lasciamo andare e proseguiamo.

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