Una delle cose che questa esperienza ci sbatte in faccia è che il meccanismo si può inceppare, che le nostre routine possono essere messe in discussione.
Le storie in cui mi imbatto nel mio lavoro parlano spesso di questo, del disorientamento di fronte a qualcosa che non possiamo controllare e prevedere: una malattia, esplosioni di rabbia, un lutto, la fine di un amore, per fare solo qualche esempio. E la sofferenza che accompagna quelle storie è percepita come un nemico invisibile, come qualcosa che deve essere combattuto e sconfitto. Proprio come questo virus.
Oggi, più che mai, ci stiamo rendendo conto che questo riguarda tutti, è la nostra condizione esistenziale: non possiamo prevedere e controllare niente.
Per la maggior parte del tempo riusciamo in qualche modo a restare nel solco che abbiamo tracciato, ma qualche volta ci capita di uscirne fuori, cosa che etimologicamente ha a che fare col delirare. E questo fa paura. Come nella città di Ottavia, una delle Città invisibili di Italo Calvino, siamo in bilico su funi, catene e passerelle, sospesi sull’abisso attraverso una rete che serve da passaggio e da sostegno.
Eppure, chissà che anche la nostra vita, come quella degli abitanti d’Ottavia, non sia meno incerta proprio a fronte di questa consapevolezza: sapere che più di tanto la rete non regge.
Uno degli slogan di questi giorni è #andràtuttobene. Io non penso che andrà tutto bene, non sta andando tutto bene. Anch’io, ogni tanto, ho voglia di essere confortata da quelle parole, ma preferisco dire che passerà, perché l’esperienza ci insegna che l’esistenza è in costante divenire, anche se ogni tanto sembra incepparsi e l’emergenza porta spesso a pensare che non ci sia nient’altro che quello che stiamo vivendo. E preferisco pensare che non sta affatto andando tutto bene, ma qualcosa sì, ed è quello che ci sta tenendo in piedi e che potrà essere ciò da cui ripartire. Il ceppo, d’altra parte, è proprio la parte inferiore dell’albero, quella da cui esso si dirama.
Questa è una delle lezioni di Gianfranco Cecchin, maestro del Centro milanese di terapia della famiglia. Anche di fronte alle famiglie più disastrate, quelle piene di guai, lui riusciva ad entusiasmarsi per il fatto che quella famiglia fosse ancora viva, e questo lo muoveva a cercare ciò che la manteneva ancora viva. Con curiosità e fiducia. Non cercava di aggiustare o togliere il sintomo, ma diceva a queste persone Ditemi come fate, esprimendo un profondo rispetto per ogni modo di stare al mondo e riconoscendo che ognuno ha dentro di sé le risorse da attivare per stare meglio. Se uno parte con quell’idea, dice Cecchin, trova parecchie cose. E allarga il proprio raggio di libertà, mi viene da dire, perché esce dall’idea che ci sia un modo giusto e uno sbagliato di essere e fare, e comincia a intravedere nuove possibilità di scelta per sé. I libri di Cecchin, e ancor più quelli di Boscolo, l’altro grande maestro del modello di Milano, contengono storie che si leggono con lo stesso gusto con cui ci si immerge in una raccolta di racconti.
Vivere è qualcosa di complesso e delicato. In questi giorni è un’evidenza che ha preso forza passando da sfondo a figura, in un susseguirsi di stati d’animo difficili da maneggiare.
Eppure, anche ora, non smetto mai di guardare il coraggio con cui stiamo in bilico lassù, ognuno con i propri ceppi. Anche chi pensa di non farcela, anche lui ogni giorno sta lassù, con i suoi ceppi, in bilico, come a Ottavia.